venerdì 23 maggio 2014

GIOVANNI FALCONE UN ITALIANO SCOMODO


Pubblico degli stralci di una intervista de La Repubblica ad ILDA BOCCASSINI, procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano, su Giovanni Falcone e i lati oscuri che avvolgono le celebrazioni che ogni anno se ne fanno. L'intervista è del 2002. 

MILANO - Dottoressa Boccassini, oggi al ministero della Giustizia sarà scoperta una targa in memoria di Giovanni Falcone, a dieci anni dalla morte. E' la prima volta che un magistrato ha quest'onore anche se è vero che solo Giovanni Falcone, direttore degli Affari Penali in quella primavera del 1992, è morto ammazzato quando era al vertice del ministero di Giustizia. "Non è del tutto vero, Girolamo Minervini quando fu ucciso, il 18 marzo del 1980, si preparava a diventare direttore dell'amministrazione penitenziaria: dunque, un alto dirigente del ministero".
E allora? 
"Dal 1971 ad oggi, se non sbaglio, sono stati uccisi in Italia ventiquattro magistrati. Mi chiedo perché soltanto per Giovanni Falcone, anno dopo anno, tanti onori, celebrazioni, accensioni polemiche". Credo che la ragione vada rintracciata nell'ipocrisia del Paese, nel senso di colpa della magistratura, nella cattiva coscienza della politica. Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. E' soltanto il più macroscopico paradosso della vita e della morte di Giovanni Falcone: la sua breve esistenza, come oggi la sua memoria, è stata sempre schiacciata dal paradosso, a ben vedere. Ce ne sono di clamorosi... Non c'è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. E' stato sempre "trombatissimo". Bocciato come consigliere istruttore. Bocciato come procuratore di Palermo. Bocciato come candidato al Csm, e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso. Dieci anni fa, per dar conto delle sue sconfitte, Mario Pirani dovette ricorrere a un personaggio letterario, l'Aureliano Buendìa di Cent'anni di solitudine che dette trentadue battaglie e le perdette tutte: ancora oggi, non c'è similitudine migliore. Eppure, nonostante le ripetute "trombature", ogni anno si celebra l'esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c'è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di "amici" che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito. Non voglio risse né polemiche. Voglio ricordare, ragionare e capire perché - credo - così si rispetta il sacrificio di questo strano tipo di italiano, grande e scomodo, che è stato Giovanni. Voglio ricordare che la magistratura italiana addirittura scioperò contro Falcone nel 1991. Scioperò contro la legge che creava la Procura nazionale antimafia a lui destinata. Per bloccarne la candidatura, ricordo, un togato del Csm, Gianfranco Viglietta, di Magistratura democratica, esaltò in una lettera al presidente Cossiga l' "assoluta indipendenza" dell'antagonista di Falcone, Agostino Cordova, osservando che "i criteri per la nomina a importantissimi incarichi direttivi non prevedono notorietà o popolarità". Dunque, Falcone non era indipendente, ma solo "popolare" per Viglietta. Più esplicito in quell'accusa fu Alfonso Amatucci, anch'egli togato al Csm, per la corrente dei Verdi (cui pure Falcone aderiva). Scrisse al Sole-24 ore che Giovanni "in caso di designazione, avrebbe fatto bene ad apparire libero da ogni vincolo di gratitudine politica". Falcone era più o meno un "venduto" per Amatucci. Ancora un ricordo. Leoluca Orlando Cascio, nel 1990, sostenne e non fu il solo, soprattutto nella sinistra - che "dentro i cassetti della procura di Palermo ce n'è abbastanza per fare giustizia sui delitti politici". Quei cassetti, dove si insabbiava la verità sulla morte di Mattarella, La Torre, Insalaco, Bonsignore, erano di Falcone. Ritorna l'accusa di Amatucci e Viglietta: Falcone è un "venduto". Delle due l'una, allora. O quelle accuse erano fondate e allora non si beatifichi come eroe un magistrato che ha fatto commercio della sua indipendenza o quelle accuse erano, come sono, calunnie e gli artefici avvertano la necessità di fare pubblica ammenda. In dieci anni, non ho ancora ascoltato una sola autocritica nella magistratura e nella politica. Fin quando ciò non accadrà, io sentirò il dovere di ricordare. Perché solo ricordare le umiliazioni subite da Giovanni Falcone permette di comprendere il significato del suo sacrificio, il suo indistruttibile senso del dovere e delle istituzioni; di afferrare l'eccentricità "rivoluzionaria" del suo riformismo rispetto a un modo di essere magistrato in Italia o a fronte dell'idea subalterna della funzione giudiziaria coltivata dalla politica. Era questa sua diversità a renderlo inviso a una parte della magistratura e a rendergli diffidente e nemica la politica, tutta la politica, se si esclude la parentesi al ministero dove gli fu possibile sperimentare qualche sua innovativa idea".
Qual era, secondo lei, la "diversità" di Falcone?  
"Una parte della magistratura italiana è stata sempre "sensibile" agli interessi della politica e la politica ha sempre desiderato la magistratura "sensibile" alla ragion di Stato, agli equilibri di governo, alla difesa dello status quo, alle convenienze dei più forti. Era vero venti anni fa quando i procuratori generali mai pronunciavano la parola "mafia" nei discorsi inaugurali dell'anno giudiziario, è vero oggi. Anche ora alcuni magistrati tra i migliori della nostra Repubblica, conservatori o riformisti che siano, sono attenti al gioco e agli interessi della politica. Magari questa attenzione è meno esplicita, più laterale e mediata, diciamo più scolorita e indiretta, ma è ancora presente. Bene, Giovanni Falcone è stato sempre sensibile soltanto all'indipendenza e all'autonomia della sua funzione: erano, per lui, valori ineliminabili. Non equivalevano a un privilegio di casta, come appare ad alcuni miei colleghi, né un riconoscimento che declina una sostanziale irresponsabilità, come credono altri. Al contrario, pensava che autonomia e indipendenza fossero le gravose responsabilità che la Costituzione ha affidato al magistrato per garantire l'imparzialità del giudizio, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l'efficienza della macchina giudiziaria. Giovanni sentiva l'indipendenza del magistrato come missione e risorsa; come il segno stesso, costitutivo, della sua identità di servitore dello Stato. Chiunque lo abbia incontrato, magistrato o politico che fosse, ha avvertito questa sua ostinazione, e la sua ostinazione lo ha reso "straniero" tra i magistrati "sensibili" e tra i politici innamorati dei magistrati "sensibili": così è diventato un "corpo estraneo" da bocciare, distruggere, calunniare. E' questa la ragione di fondo per cui non mi stancherò mai di chiedere alla magistratura una severa autocritica. Solo facendo i conti con la storia di Giovanni Falcone, la magistratura potrà trovare la forza e le ragioni per fronteggiare chi oggi vuole manipolare, con l'ordinamento giudiziario, l'autonomia e l'indipendenza della magistratura anche strumentalizzando le riflessioni di Giovanni".

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